Ci sono diversi modi per descrivere come sia variegata e complessa la professione del medico veterinario.
Abbiamo pensato di farvi raccontare la professione proprio da chi la vive sulla sua pelle quotidianamente: i medici veterinari iscritti al nostro Ordine.
Ogni mese troverete una testimonianza di un Medico Veterinario valdostano che, con immagini e parole, vi descriverà la sua attività professionale.

  1. Nome e Cognome
    Marco Piccolo.

  2. Perché hai deciso di iscriverti a Medicina veterinaria?
    Attrazione verso gli animali.

  3. Come sono stati gli anni dell’Università?
    Interessanti, non particolarmente divertenti e, ovviamente, impegnativi.

  4. Quando ti sei laureato/a?
    Novembre 1989.

  5. Quando ti sei iscritto/a all’Ordine?
    Giugno 1992.

  6. Ricordi come è stato il tuo primo giorno di lavoro?
    Ho un bel ricordo del mio primo giorno di lavoro in Valle: mi hanno portato in fondo alla Val di Rhêmes a fare il risanamento ai bovini di un allevatore; i posti erano talmente belli che mi pareva quasi di essere in vacanza e anche l’approccio avuto con l’allevatore è stato senz’altro positivo.
    Sono rimasto colpito dall’ospitalità, anche se poi col passare del tempo ho capito che la cosa poteva anche avere un altro risvolto un po’ meno simpatico in alcuni casi, quello cioè di cercare di influenzare il tuo giudizio al momento della lettura dei risultati del risanamento.

  7. Di cosa ti occupi ora nello specifico? Vuoi descriverci in cosa consiste la tua attuale attività professionale?
    Dal 1998 ho cominciato a lavorare con le Organizzazioni non Governative che operano in Paesi disastrati per catastrofi naturali o a seguito di conflitti, anche se il mio impegno in questo settore non è sempre stato continuativo, ma si è alternato con delle pause più o meno lunghe, soprattutto ma non solo per motivi familiari.
    Diciamo che il settore di cui mi occupo ha bene o male a che vedere con interventi veterinari anche se mi è già capitato di lavorare in progetti che non avevano la veterinaria come principale settore di intervento, come ad esempio in Somalia dove ho lavorato per 14 mesi in un progetto di aiuto ai pescatori artigianali.
    In Etiopia, al confine con la Somalia, mi è capitato di trovarmi a lavorare nel corso di un’inaspettata epidemia di colera; quindi, messi temporaneamente da parte gli inteventi veterinari previsti dal progetto, ho impiegato del personale paramedico locale e abbiamo cominciato a girare per le campagne per dare assistenza a coloro che non erano in grado di raggiungere un centro abitato dove ci potesse essere un qualche centro di assistenza per i malati.
    Solitamente comunque si tratta di interventi veterinari, nella maggior parte dei casi, volti a migliorare le condizioni del bestiame (e di riflesso le condizioni delle popolazioni, in particolare quelle che fanno principalmente affidamento sul bestiame per la propria sussistenza, come i nomadi ma non solo) attraverso campagne di trattamento contro i parassiti interni ed esterni e vaccinazioni, questo sopratutto in Africa.
    Nel corso di queste campagne capita di imbattersi in malattie più o meno comuni a seconda della zona di intervento e cerchiamo sempre di trattare il problema sul posto, se abbiamo i farmaci necessari. Nella maggior parte dei casi, specialmente in Africa, si tratta di malattie protozoarie, come la Trypanosomiasi o la Babesiosi o l’Anaplasmosi, ma mi è capitato anche di vedere l’Afta, il Vaiolo ovino e il Carbonchio sintomatico.
    Un’altra parte importante del lavoro consiste nell’addestrare del personale selezionato dalle comunità locali, i cosiddetti Community Animal Health Workers, in modo che sia in grado di dare un minimo di assistenza ai propri allevatori; questo specialmente in Africa dove è quasi impossibile trovare un veterinario che vada sul campo in modo permanente (la maggior parte dei veterinari in Africa lavora per il governo ed è spesso impegnato in compiti burocratici).
    Bisogna quindi cercare di mettere le comunità nelle condizioni di poter provvedere da sole alle principali necessità del proprio bestiame e questo sopratutto per i nomadi che si trovano spesso in zone dove non vi è alcun servizio veterinario accessibile.
    In altri casi invece si tratta di cercare di migliorare le condizioni del management del bestiame, come stiamo facendo adesso qui in Pakistan, in zone di montagna dove i bovini sono tenuti in condizioni veramente precarie, sia per la scarsità di cibo a disposizione (è possibile coltivare solo nel fondovalle dove c’è un corso d’acqua, attraverso canalizzazioni mentre tutto il resto della montagna è completamente privo di vegetazione) sia per il modo in cui sono stabulati, oltre che per il management più in generale.
    Si tratta di vecchie stalle piccole e prive di qualsiasi areazione o luce: gli animali sono tenuti di notte all’interno di queste specie di carceri, senza lettiera, mangiatoia e abbeveratoio e di giorno, perlomeno nel periodo invernale, accedono ad un’altra zona della stalla, sempre chiusa ma almeno un po’ più arieggiata.
    Il mangiare viene loro somministrato a terra spesso sulle loro stesse feci e, in questa zona del Paese in particolare, è costituito prevalentemente dalla pianta del mais secca somministrata per intero, dopo che ovviamente è stata raccolta la pannocchia e utilizzata per l’alimentazione umana.
    A parte la difficoltà per i bovini ad assumere la pianta intera (abbiamo fornito loro alcuni sempilici macchinari per tritare la pianta e far si che l’animale riesca almeno ad assumere quello che gli danno), il resto dell’alimentazione è costituito da un po’ di fieno di medica mal fatto (perché per avere piu’ volume tagliano la pianta tardivamente), dalla paglia del grano o dell’orzo (utilizzati per l’alimentazione umana) e da qualche altro prodotto locale, come residui di albicocche o le foglie di alcuni alberi.
    In questo caso stiamo cercando di migliorare da una parte il management attraverso dei training fatti direttamente sul campo con gli allevatori: qui in Pakistan sono le donne che si occupano della gestione del bestiame di casa, quindi il training deve comunque essere fatto da un locale, meglio se da una donna (difficilmente verrebbe permesso ad uno straniero di interagire con le donne) e inoltre certi argomenti, come ad esempio il rilevamento del calore nelle bovine nei riguardi della fecondazione artificiale, non possono essere trattati per motivi culturali. Dall’altra stiamo cercando di migliorare l’alimentazione, attraverso la distribuzione di sementi migliorate, oltre che cercare di aumentare la superfice di terra coltivabile attraverso dei canali di irrigazione costruiti dai locali.
    Sono state costruite delle stalle modello, nella speranza che possano servire da esempio; inoltre un altro grosso limite che abbiamo qui è dato dal fatto che si tratta di bovine autoctone le cui potenzialità genetiche di produzione sono alquanto limitate, tre o quattro litri di latte al massimo, nel periodo di massima produzione. Stiamo cercando quindi anche attraverso l’introduzione di tori di specie esotiche (Jersey in particolare) di migliorare le capacità produttive degli animali, anche se ovviamente non basta la genetica da sola; fondamentale è infatti il management e l’alimentazione, che qui costituiscono un grosso limite.
    La fecondazione artificiale rappresenta sicuramente il mezzo più adatto per apportare miglioramenti alle produzioni, quindi abbiamo cercato di addestrare del personale selezionato dalle comunità e di fornirgli il materiale necessario (oltre alla supervisione) per poter erogare questo servizio di fecondazione alle comunità, mentre i tori sono stati generalmente destinati alle zone più isolate o comunque difficilmente raggiungibili dagli operatori della fecondazione artificiale.
    Ricapitolando il mio tipo di intervento dipende dal Paese e dalle condizioni: emergenza o sviluppo.

  8. Operi in un settore in cui c’è molta concorrenza?
    Diciamo che in questi ultimi anni è aumentato il numero di operatori, e vengono sempre più richieste competenze che vanno al di là dello specifico settore di competenza, come la gestione del progetto dal punto di vista finanziario e amministrativo, l’assunzione e gestione del personale, la rendicontazione e, non da ultimo, la sicurezza che sopratutto in alcuni Paesi costituisce un elemento importante da tenere spesso in considerazione nel corso degli interventi, per evitare inconvenienti spiacevoli.

  9. Come cerchi di differenziarti dai tuoi colleghi per proporti alla tua potenziale clientela?
    In generale il proprio biglietto da visita è costituito dal proprio curriculum, dalle esperienze fatte e da quello che i precedenti datori di lavoro possono dire su di te.
    Non ho particolari elementi per differenziarmi dagli altri colleghi, non avendo Master o PHD; come già detto le esperienze fatte possono costituire un elemento di differenziazione rispetto ad altri.

  10. Ti senti realizzato/a nella tua attività professionale?
    Solo alle volte. Dipende sopratutto dal tipo di progetto in cui si lavora, dal Paese oltre che dalle persone con cui bisogna interagire che possono rendere più o meno complicato il tuo lavoro.

  11. Come sono i rapporti con i Tuoi colleghi?
    Non ne ho molti, a parte una ristretta cerchia di amici/colleghi e la maggior parte di loro gravitano attorno alla Valle d’Aosta; con gli altri, per quel che mi può capitare, cerco di avere un buon rapporto, ma dipende sempre dalla persona che ci si trova davanti.

  12. Come sono i rapporti con il Tuo Ordine?
    Limitati al rinnovo annuale dell’iscrizione e alla lettura di comunicazioni via posta o e mail; purtroppo (o per fortuna) trovandomi all’estero la maggior parte dell’anno, non riesco neanche a frequentare alcuni dei corsi organizzati dall’Ordine, anche se mi piacerebbe perchè alle volte gli argomenti sembrano essere veramente interessanti.

  13. Hai un aneddoto professionale particolarmente interessante e/o divertente che vuoi raccontare?
    Non mi vengono in mente purtroppo aneddoti professionali da raccontarti, almeno non al momento…

  14. Come fai a conciliare il tempo da dedicare al lavoro con il tempo da dedicare alla famiglia?
    Non ci riesco.

  15. Cosa ti senti di consigliare a chi vorrebbe cominciare la tua professione?
    Di specializzarsi il più possibile; al giorno d’oggi la maggior parte degli operatori è in possesso di Master o PHD e questo costituisce senz’altro un vantaggio riguardo alle possibilità di trovare un impiego, anche se l’esperienza chiaramente ha la sua importanza.
    La conoscenza di almeno una lingua straniera (preferibilmente l’inglese) è un altro elemento fondamentale; ancora meglio la conoscenza di due lingue, perché questo apre possibilità lavorative anche in altre zone del mondo.

  16. Hai qualche sogno nel cassetto per il tuo futuro?
    Una casetta vicino al mare in un Paese in via di sviluppo dove poter vivere sereno, dedicandomi prevalentemente al mare, se possibile in armonia con le popolazioni locali, e praticando un po’ di professione sia per interesse che per  arrotondare la pensione, se mai  arriverà…

  17. Hai qualche rimorso o rimpianto per il tuo passato?
    Si certamente; ma queste sono cose personali e me ne guarderei bene dal parlarne con persone con le quali non sono più che in confidenza.

  18. Concludi la tua intervista con un tuo pensiero in piena libertà che rappresenta il tuo quotidiano operare o la tua filosofia di vita (proverbio, riflessione, citazione etc..).
    Non ho una particolare filosofia di vita, ne citazioni a cui fare riferimento, vorrei cercare di stare bene con me stesso prima di tutto e poi con gli altri.